Fullmetal Alchemist: questioni identitarie di un’armatura

Alphonse Elric

Sopravviviamo a stento

aggrappandoci ad un compito,

per nascondere ferite invisibili, 

camminando tra macerie d’identità:

chi sono? qual è il mio scopo?

Il commento del Dott. Giuliano Renna sugli scorci psicologici del personaggio di Alphonse Elric, uno dei protagonisti del capolavoro di Hiromu Arakawa.

Partiamo da queste domande per parlare di Alphonse Elric di “Fullmetal Alchemist“, un personaggio dalla forte carica psicologica e simbolica che ci racconta di una condizione esistenziale in cui è facile per ognuno di noi rispecchiarsi. Dopo l’incidente che lo ha privato del suo corpo, Alphonse si ritrova a vivere nella forma di un’armatura di metallo. Questa condizione lo porterà a interrogarsi sul suo scopo e sulla verità dietro la sua esistenza e identità.
Per approfondire questo personaggio tratto dall’anime ci rifaremo ad altre due storie che raccontano di cavalieri e armature; rispettivamente “Il cavaliere inesistente” di Calvino e il Mito di Talos dalla mitologia greca. Questi saranno interessanti confronti le cui assonanze con il fratello dell’alchimista d’acciaio ci daranno punti di vista nuovi per pensare il destino di queste armature e, in termini psicologici, l’esperienza tutta umana di sentirsi vuoti o connessi alla vita in ognuno di noi.

Trittico Alphonse - Calvino - Talos
Da sinistra verso destra, rispettivamente: Alphonse Elric, Italo Calvino, Talos

Ma partiamo dall’inizio: chi è Alphonse Elric? Al, com’è anche chiamato nell’anime, è vittima di un incidente alchemico che segnerà la sua vita e quella del fratello. Incidente che rischia di renderlo sacrificio e invece, grazie al fratello Edward, che sacrifica un braccio per lui, vedrà salvata la sua anima, anche se vincolata ad un sigillo apposto su un’armatura. E’ da qui che parte l’odissea di questi due fratelli per ritrovare i loro corpi. 

Essendo privo di un corpo fisico, Alphonse sperimenta una sensazione di distacco e alienazione dal mondo fisico che lo circonda, un forte vissuto di derealizzazione, ovvero mettere in dubbio quale sia la vera realtà. Questo lo porterà in varie occasioni a riflettere sul significato dell’essere umano e sulla sua stessa esistenza, chiedendosi se può ancora essere considerato un essere umano senza un corpo e se l’anima al suo interno sia ancora intatta.

La sua condizione mette in discussione anche la sua percezione di sé stesso e il suo senso di normalità. Alphonse deve confrontarsi con la paura di essere visto dagli altri come un oggetto o un mostro a causa del suo aspetto esteriore e l’impossibilità di provare sensazioni fisiche. Alphonse riesce a rimanere saldamente attaccato alla sua vita e missione (riavere il suo corpo), nonostante i costanti dubbi e le incertezze che il suo aspetto riflettono: sono vuoto? sono davvero io o una macchina in cui sono stati impiantati ricordi?
Questi quesiti rimandano ad un’ampia letteratura sul tema della coscienza nelle creature o creazioni artificiali, nel momento in cui ci chiediamo se esistiamo, quale sia la realtà, a quale fine e perché. La stessa cosa in realtà che ci chiediamo noi esseri umani e ogni forma di vita “intelligente”, che genera al contempo una forte angoscia e un’altrettanto forte tensione vitale che ci spinge a creare, interrogarci, procreare e vivere.

Attraverso il personaggio di Alphonse, “Fullmetal Alchemist” esplora la natura dell’identità e l’importanza di guardare oltre l’apparenza fisica. Rappresenta la forza dell’individualità e il concetto che ciò che rende una persona unica e viva risiede nel suo spirito, nelle sue azioni e nelle sue relazioni, piuttosto che nell’aspetto esteriore o nelle circostanze meramente fisiche.


L’essenza del cavaliere e dell’armatura


Cosa sarebbe accaduto se Alphonse non si fosse mai interrogato di fronte alla sua particolare esistenza? In questo senso “Fullmetal Alchemist” e la storia del “Cavaliere Inesistente” di Italo Calvino condividono un interessante parallelo nelle loro tematiche narrative. Entrambi affrontano la questione dell’identità e dell’esistenza, presentando personaggi che devono affrontare sfide legate alla loro condizione fisica.

Cavaliere inesistente Italo Calvino
Edizione Oscar Mondadori de “Il cavaliere inesistente” di Italo Calvino

In particolare nel “Cavaliere Inesistente”, il protagonista, Agilulfo, è un cavaliere immaginario, privo di un corpo fisico. È una figura che esiste solo attraverso la sua armatura e la sua ferrea volontà di essere un cavaliere: «Non sapeva chi era, ma sapeva che era un cavaliere. Tutto quello che sapeva, lo sapeva per essere un cavaliere. E il suo essere cavaliere era, per lui, ciò che gli dava senso all’esistenza».

Entrambi i personaggi sono costretti a confrontarsi con le limitazioni del loro stato fisico e a cercare un significato al di là della loro forma inanimata. Tanto Agilulfo quanto Alphonse dimostrano una forza interiore straordinaria e una determinazione nel perseguire i loro obiettivi, nonostante le loro condizioni apparentemente impossibili. 

In entrambe le narrazioni, l’aspetto fisico diventa un simbolo della lotta per l’identità e dell’importanza di guardare oltre l’apparenza esteriore. Agilulfo e Alphonse sfidano le convenzioni e le aspettative della società, dimostrando che ciò che rende una persona reale ed esistente va oltre il corpo fisico. 

Ma su una caratteristica si distinguono, le loro sorti seguono un destino diverso (spoiler) perché mentre Alphonse ritroverà infine il suo corpo, Agilulfo scomparirà in seguito ad una ferita letale che intaccherà la sua armatura-corpo, ma ancora prima a farlo scomparire sarà la crepa nella sua convinzione di essere un “perfetto cavaliere”: «purtroppo, non considerandosi più un perfetto cavaliere perdendo la forza di volontà e la fede Agilulfo si dissolve, lasciando in eredità la sua bianca armatura». Agilulfo, in quanto cavaliere immaginario vive solo in quanto tale, cioè esiste solo se cavaliere, non può uscire da questo ruolo e nel momento in cui crolla la sua volontà e identità, viene meno anche il suo esistere.


Il legame con la vita


Cosa lega però un’anima al corpo o, nel nostro caso, all’armatura? Per rispondere confrontiamo la nostra storia con il mito di Talos: questo racconto greco ha origini antiche e fa parte delle leggende legate all’isola di Creta. Talos viene descritto in diverse fonti classiche, tra cui le opere di Apollonio Rodio, Ovidio e Pindaro.

Nelle storie, Talos viene spesso descritto come un automa gigante creato dal dio Efesto. Era fabbricato interamente in bronzo ed era dotato di un’anima o di un’intelligenza propria. Il suo compito principale era proteggere l’isola di Creta da invasori stranieri, circondando le coste dell’isola e scacciando le navi nemiche.

Talos
Talos e Medea

La modalità di protezione di Talos era piuttosto unica: camminava tre volte intorno all’isola ogni giorno, gettando massi ardenti contro le navi nemiche per difenderla. Era un guardiano impenetrabile grazie alla sua forza e al suo corpo di bronzo. La sua unica vulnerabilità era una vena di sangue che scorreva nella sua gamba, con una singola vite di bronzo che la teneva chiusa. Secondo la leggenda, Medea, la maga e figlia del re di Colchide, giunse a Creta con il famoso eroe greco Giasone durante la loro ricerca del Vello d’oro. Medea, con la sua abilità magica, intuì la debolezza di Talos e decise di sfruttarla per sconfiggerlo.

Sigillo anchemico
Il sigillo alchemico di sangue che tiene legata l’anima di Alphonse all’armatura

Cosa ci racconta il mito di Talos rispetto a queste armature vuote di cui stiamo parlando? Il legame tra Talos e Alphonse è quello del sangue: entrambi sono costretti ad esistere sentendosi vuoti, con un corpo inconsistente che li rende invincibili, ma il cui punto debole risiede in ciò che li lega anche alla loro umanità. Mentre Talos aveva una vite a chiudere una vena di sangue, simbolo di vita e umanità tra le altre cose, Alphonse è letteralmente vincolato all’armatura da un sigillo alchemico fatto col sangue del fratello, dal fratello stesso.

Questo dettaglio, più che essere un vero e proprio punto debole, ci racconta di più sulla vera natura di questi due personaggi. Qualcuno ha dato il sangue affinché loro fossero ancora presenti e legati alla vita e questo avviene attraverso un sacrificio che imprime dentro di loro l’essenza simbolica della vita umana: il creatore di Talos e il fratello di Alphonse, Edward, condividono con loro una parte di sé, delle loro emozioni (rappresentate spesso iconograficamente dal sangue) e una parte di anima, motivo per il quale sono fragili e hanno un punto debole, ma è specificamente attraverso quel punto che in loro scorre la possibilità di vivere ed esistere.


Le storie che curano: il commento psicologico


Ci sono momenti nella vita in cui ci sentiamo costretti a vestire abiti duri e corazzati per proteggerci e riuscire a portare a termine compiti per i quali serve avvolgersi in un’armatura invincibile e immortale. Non possiamo permetterci di avere debolezze: meglio essere totalmente cavalieri e perdere ogni segno di debolezza, come emozioni e anima; ad esempio come Agilulfo che non esiste di per sé, ma esiste in base a ciò che per lui significa essere “cavaliere”, noi possiamo scegliere inconsapevolmente di vivere soltanto come l’altro ci immagina, tagliando ogni rapporto autentico e reale con noi stessi, ma anche con gli altri.

Il gigante di bronzo, Talos, e l’armatura che ospita l’anima dell’alchimista Alphonse, ci insegnano però che vale la pena conservare un legame con il proprio corpo, per quanto possa essere vulnerabile e fragile, perché è attraverso quella piccola fessura che passano i sentimenti che ci fanno sentire di essere vivi e che vale la pena vivere in questo mondo e con gli altri. Avere un corpo è l’unico modo per essere in relazione con gli altri, sperimentare gioia, felicità e sentire l’anima che esulta o sorride serena. Il corpo non porta solo dolore e ferite, anche se queste possono essere trattate e rimarginate, e la psicologia cerca di fare questo: ritrovare il proprio corpo e potersi relazionare in modo nuovo con gli altri, e così facendo trovare il tempo per ricucire le ferite e anche animarsi, sentire di avere uno scopo e una ragione d’esistere, anche se non razionalmente comprensibile.

Siamo gusci di bronzo e vuoti invincibili, temprati dalle domande per cui vale la pena esistere. Sopravviviamo a stento aggrappandoci ad un compito, per nascondere ferite invisibili, camminando tra macerie identitarie:

chi sono? qual è il mio scopo?

Mio fratello lega vita e sangue, anima e armatura. Dentro di me il sigillo cremisi che riaccende il dolore, ma tiene vivo il falò dei ricordi: ritrovare il mio corpo, poter di nuovo sentire le lacrime o l’esultare del cuore. 

Essere chi sono, con gli altri e in amore. Nelle tempeste reali possiamo vivere tra gioie e ferite, come gli uomini vulnerabili, che trovano la loro forza quando sono in relazione.

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