Goodbye, Eri: recensione sul manga “cinematografico” di Tatsuki Fujimoto
Il one-shot dell’autore di Chainsaw Man veicola le principali caratteristiche del mondo digitale, fino a toccare l’elaborazione del lutto e tutto il dispendioso, salvifico sforzo artistico che ne deriva.
In molti conoscono Tatsuki Fujimoto per Chainsaw Man (serie in quattordici volumi pubblicata sulla rivista Weekly Shonen Jump dal 3 dicembre 2018 al 18 dicembre 2020), eppure il mangaka è specializzato soprattutto in one-shot: basti pensate a Tetteleposan, Shikaku, La rapsodia delle sirene, La sorella maggiore o al più recente Goodbye, Eri – ed è proprio quest’ultimo che recensiremo stavolta.
Serializzato su Shōnen Jump+ (dove riscuote oltre due milioni di visualizzazioni), viene poi trasposto nel formato tankōbon dal 4 luglio 2022. L’Italia ha dovuto attendere il 10 maggio 2023, quando Star Comics l’ha pubblicato in due fantastiche edizioni: Regular con sovraccoperta e Deluxe cartonata in grande formato, in un’operazione editoriale simile a quella realizzata per Look Back.
Se dovessimo racchiudere in un unico concetto la complessa, metanarrativa trama di Goodbye Eri, sarebbe indubbiamente questo: tutti i vantaggi e gli svantaggi del digitale. Molti spettatori obiettano che Fujimoto avrebbe potuto (e dovuto) narrare la storia attraverso il cinema o i media, così da raggiungere l’integrazione massima tra espressione e contenuto; eppure le risposte possibili sono due: in primo luogo, Goodbye, Eri è già un prodotto multimediale, o almeno lo è stato, considerando l’originale pubblicazione su una rivista on-line – senza contare il formato Kindle; in secondo luogo, avvalersi del cartaceo (con tutta la fissità, concretezza e meditatio che ne deriva) esprime non soltanto l’intertestualità del mondo contemporaneo, ma anche il messaggio più profondo che l’opera vuole veicolare. In altre parole, da un lato il digitale comporta messaggi sfuggenti, dall’altro Yuta, Eri e gli altri personaggi, pur avvalendosi delle forme più moderne di comunicazione, desiderano risolverne le criticità fino a tradire (e in parte trasformare) le caratteristiche principali.
Tra sguardi scanzonati sulla realtà ed espedienti narrativi, interpretazioni guidate e piani di lettura, l’unica certezza è questa: Goodbye, Eri rientra a pieno titolo tra le opere più riuscite degli ultimi anni.
Digitale a trecentosessanta gradi
Narrativa a parte, il manga scritto e disegnato da Fujimoto presenta un secondo vantaggio: il valore documentaristico, in grado di elevare Goodbye, Eri a simbolo dell’era contemporanea.
Tutti i principali risvolti del digitale vengono racchiusi in un one-shot con meno di duecento pagine. Ricordarli a uno a uno richiederebbe una recensione a parte, perciò elencheremo soltanto i principali: il punto di vista limitato; l’intercettazione dei cambiamenti minimi nella gestualità del volto e del corpo, perfetta per trarre conclusioni comportamentali; il potere degli influencer, delle istituzioni e della cronaca nel gettare credito o discredito; il messaggio di scuse dopo la gogna pubblica (favorita a sua volta dalla società mediatica); la più o meno volontaria visione di contenuti ripugnanti (quanti di noi, scrollando la bacheca di Facebook, Instagram o TikTok, non hanno assistito a quell’animale che odiano tanto o a un brufolo che viene schiacciato?); ma anche l’enfasi sulla quotidianità, la spettacolarizzazione a scapito dell’erudizione, il diritto all’oblio, il rinnovo del ricordo.
In tutto ciò non mancano riferimenti cinematografici. Yuta, per esempio, afferma di impazzire come i personaggi di Permanent Nobara, The Brown Bunny e Il sesto senso. Peccato che l’allusione sia insufficiente, soprattutto in un manga dove il cinema costituisce il nucleo tematico: tre titoli elencati a poche pagine dalla conclusione non gli rendono giustizia, né tanto meno esprimono la passione più autentica del protagonista. Come se non bastasse, viene meno l’intertestualità di cui parlavamo nell’introduzione. Se la videocamera è il mezzo per “catturare” l’esterno, ibridarlo con l’occhio sul fronte opposto e (nei casi più riusciti) inglobarlo in un omnicomprensivo prodotto artistico, una domanda sorge spontanea: perché non aprirsi ad altre opere di fiction? Internet rappresenta una fattispecie aperta nel quale ogni link, ogni “posto” scivola nel prossimo, e lo stesso vale per il cinema – no, la compresenza di manga, cinema e multimedialità non basta. Altrettanto funzionale sarebbe stato esprimere tecnicismi sui dispositivi digitali.
Uno svantaggio in un’opera pressoché perfetta, direbbe qualcuno. Tuttavia, la scelta di Fujimoto ha il suo risvolto positivo: dimostrare come la realtà prevalga sempre sulla finzione, con tutto il senso di vuoto che ne deriva. D’altronde si è protagonisti soltanto della propria storia… e Goodbye, Eri non fa certo eccezione.
Tra realtà e finzione
La confusione tra piano analogico e digitale è evidente fin dalla prima scena. «Mi hanno regalato un cellulare per il mio compleanno» dice Yuta durante una ripresa. «Questi sono mia mamma e mio papà.»
Un’assunzione per nulla scontata: il bambino assimila i “genitori” al di qua dello schermo con quelli al di là, nonostante in molti la penserebbero diversamente. In un risultato simile a Il tradimento delle immagini di René Magritte, infatti, Fujimoto cementa realtà e finzione nella sua inedita cifra stilistica, fino a distruggere l’appiglio sul quale il lettore vorrebbe aggrapparsi.
Se, da un lato, le immagini digitali presentano uno stile mosso e sbiadito – efficace nel favorire la corretta interpretazione degli eventi, – dall’altro sfuma il confine tra autore e narratore. Chi racconta la storia? Il personaggio Yuta o il mangaka Fujimoto? L’incipit conferma la prima ipotesi, ma la volontà del protagonista di sublimare i momenti più dolorosi, attribuirgli un senso e narrarli in un’autobiografia suggerisce il contrario. Così il distacco psicologico scompare. Una simultaneità del genere non è certo fortuita: quand’è che falliamo nell’elevarci sul caos, se non dopo una disgrazia? (Almeno inizialmente, come evidenzieremo in seguito.)
Ecco perché in Goodbye, Eri l’ibridazione tra i piani è tanto oggettiva quanto soggettiva. Nel secondo caso, ha un risvolto ulteriore: l’incapacità di distinguere i traumi reali da quelli apparenti. Vi ricorda qualcosa? Sicuramente i fan di Satoshi Kon non mancheranno di collegarla al suo debutto da regista – se non l’avete ancora letta, ecco la recensione di Perfect Blue.
In un’integrazione tanto ampia non sorprendono le sfumature cyberpunk. «Il cervello ha uno spazio di archiviazione limitato» afferma Eri, «proprio come un hard disk.» Transumanesimo a parte, le implicazioni dell’accostamento uomo-macchina sono tre: in primo luogo, il confine tra analogico e digitale svanisce sempre più; in secondo luogo, l’essere umano si “spersonalizza” per superare i momenti difficili; in terzo luogo, incorpora l’arte (un’arte strumentale e, perché no, banale nella sua quotidianità) pur di attribuire un senso al reale.
Immortalità digitale
Come suggerisce il titolo, Goodbye, Eri è una storia sulla perdita. Coincidenze a parte – in italiano perfino “Eri” rimanda al passato, – i personaggi del one-shot desiderano rinnovare il passato attraverso il digitale.
L’obiettivo? Raggiungere l’immortalità. «È come se attraverso quelle riprese tu possa continuare a vivere» ricorda Eri, mentre la madre di Yuta afferma: «Grazie ai video potrai sentire la mia voce e vedermi muovere. In questo modo potrai ricordarti di me anche quando me ne sarà andata.» Il ragazzo postula addirittura l’esistenza di «una vampira», nonostante la persona in questione disprezzi l’aglio. «Odio anche la cipolla e lo scalogno» aggiunge con ironia.
La centralità del vampiro non è casuale: da un lato, la figura folkloristica vive nell’oscurità (essenziale per riprodurre un film); dall’altro, evita la luce del sole (ma non quella digitale). Ecco spiegata la brama per la vita eterna, nella speranza che fondersi con l’opposto – il digitale, fugace per antonomasia – crei i presupposti per la totalizzazione artistica.
Peccato che la vittoria non sia così scontata. Tornando a Magritte, simulacro analogico e digitale non coincidono, perciò a sopravvivere è nient’altro che un aggregato di pixel. L’intuizione arricchisce il manga di un valore aggiunto: il conflitto tra durevolezza (espressione) e fuggevolezza (contenuto), dove ovviamente quest’ultimo termine riguarda il tema narrativo e non certo la qualità della storia.
Conflitto peraltro ribadito dall’acqua, simbolo ricorrente nella trama – e torniamo ancora a Perfect Blue. Con la sua trasparenza, inafferrabilità e inconsistenza, veicola al meglio le caratteristiche del digitale. Non sorprende che l’utente online si ritrovi a navigare tra una pagina e l’altra. Inoltre, l’acqua testimonia il trauma originario: la fuoriuscita dal ventre materno; l’approdo in un mondo dalle regole esclusive; l’illuminazione indiretta; la mancanza di coordinate; ma soprattutto: la perdita del contatto con la vita, se stessi, le anime dei defunti.
In altre parole, il digitale combatte la caducità delle cose con le stesse armi. L’incapacità di sperimentare direttamente le immagini su uno schermo cinematografico o uno smartphone è speculare quella di abbracciare i propri cari. Eppure Yuta ha valicato i limiti del mondo contemporaneo: basti pensare al gran numero di riprese, o a quando, seduto sul divano a guardare un film, col distacco fisico e psicologico che proliferava nel contesto più congeniale, il ragazzo li ha infranti avvicinandosi a Eri. Senza contare il loro rapporto in generale. Purtroppo tutto ciò si trasformerà in ricordo, nel tentativo di rinnovare un momento felice e dimostrare come quest’ultimo non sia un frame sepolto da tutti gli altri. Sulla scia di questa consapevolezza procediamo con la sezione finale.
Dal caos all’ordine (e viceversa)
Per rispondere a un mondo «pieno di morte», le cui disgrazie sono così assurde da sembrare «la trama di un film», al protagonista non resta che trasporre la realtà in forma artistica nel tentativo di attribuirgli un significato. «Era come se stessi guardando la scena di un film» commenta Yuta, a testimoniare la spersonalizzazione in atto fin dal principio.
Inizialmente il problema non esiste. Finché la madre rimane viva, finché lei, suo marito e Yuta confidano nel potere della videocamera, ogni dettaglio appare logico. È il caso di gatti randagi, graffi sul braccia, spazzolini da denti, formiche che trasportano il cadavere di una cavalletta. Ma alla luce dell’esplosivo evento finale – e chi ha letto il manga sa a cosa ci riferiamo – tutto viene svuotato del significato, ridotto a comparsa in una struttura fortuita che nulla spartisce con la narrazione. Quel gatto non metaforizzava la solitudine, quelle formiche non allegorizzavano la rimozione della morte: era semplice caos. La distruzione spinge a criticare retrospettivamente il percorso che l’ha anticipata. Più in generale, nessuno elaborerebbe consapevolmente una catena di eventi inserendo tragedie simili. In termini religiosi: se Dio esistesse, diavolerie simili non sarebbero possibili.
Allora il protagonista ci riprova. Nel farlo, filtra ancora il mondo attraverso un occhio artificiale. «Riesco ad affrontare la realtà solo di fronte a una telecamera» ammette sul finale – e torniamo ai temi della spersonalizzazione e della fuggevolezza. Se rimonterà continuamente il filmato a causa della «sensazione che manca qualcosa», lo deve proprio alla difficoltà nel trovare un comun denominatore tra le insensatezze. Il fine ultimo? Conseguire una rivincita sul passato, che nel caso di Yuta è tanto artistica quanto umana: nel primo caso, realizzare un buon film – grazie alla “dura maestra” Eri: «mediocre», «troppo banale», «noioso», «non è male, ma nemmeno buono abbastanza»; nel secondo caso, elaborare il lutto.
Ne deriva un rimaneggiamento della realtà che sfuma nella soggettività, basata sull’enfatizzazione di elementi a scapito di altri. Un po’ come quando leggiamo una notizia di cronaca e ci facciamo un’idea sbagliata. La dinamica è perfettamente simboleggiata dalla copertina del manga: mani che stringono un cellulare, sul cui schermo figura il volto luminoso di Eri; a essere dimenticato, relegato al rimosso psicologico, è invece il corpo buio e rosso sangue con l’immancabile acqua a fare da sfondo. Tuttavia, gli elementi esclusi possono nascondere più di una sorpresa – e Goodbye, Eri non mancherà di dimostrarlo. Siamo in presenza di un narratore inaffidabile? No, è la realtà a esserlo. Così come l’arte (specialmente se autobiografica).
Altrettanta ambiguità caratterizza l’epilogo dell’opera. La re-interpretazione realizzata da Yuta è notevole, ma forse la soluzione migliore rimane la più semplice: lasciar perdere. E così lo scoppio finale testimonia la volontà dell’autore-narratore di distaccarsi dalla propria arte, schiacciata dalla realtà e dall’onirico solco con la presunzione di unire i due fronti. L’obiettivo è vivere serenamente; e chissà che la panacea creativa non sortisca l’effetto opposto. E se la mancanza di riferimenti cinematografici derivasse da questo? E se il cartaceo simboleggiasse il (sofferto) raggiungimento di un punto fermo? Da un altro punto di vista, la marziana conclusione di Goodbye, Eri ricalca un detto molto conosciuto: «Chiodo schiaccia chiodo.» Di fronte alla brutalità del reale, l’unica soluzione per raggiungere il sovrasenso è emulare con un colpo da maestro la stessa violenza sperimentata fino ad allora.
Forse Goodbye, Eri avrebbe potuto esplicitare il messaggio chiaramente, configurando gli elementi in una visione coesa. Additare l’ambiguità come un difetto invalicabile non è un reato. Eppure, un’indeterminatezza simile eleva tutti gli altri pregi. Dopo duecento pagine di manga e (mi auguro) questa recensione, ormai appare chiaro: la significazione è raggiungibile soltanto dopo una ricerca individuale. Ed eccoci approdati a una coesione più sottile. In un’opera dove cinema e multimedialità costituiscono la cifra stilistica, il messaggio finale non può che essere altrettanto sfuggente.
Per uno sguardo sull’arte più “pop” di Fujimoto non perdetevi la recensione di Chainswaw Man, il nuovo gioiello di Studio MAPPA.
Summary
Goodbye, Eri è un one-shot che riassume le infinite sfumature del digitale in meno di duecento pagine. Dalla confusione tra analogico e digitale all’ambiguità dell’istanza narrativa, dal rinnovo del ricordo al nutrito apparato simbolico – senza contare le riflessioni su ordine e caos del protagonista, – gli elementi del manga di Tatsuki Fujimoto collegano la parabola di Yuta con l’interpretazione del lettore, fino all’esplosiva, chiarificatrice rivelazione finale. Forse l’autoreferenzialità e la scarsa coesione compromettono la lettura, eppure l’omogeneità è semplicemente nascosta: l’enfatizzazione-sfuggevolezza del digitale e tutte le altre geniali intuizioni dell’autore caratterizzano tanto la trama quanto messaggio.